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La banalità del male

Il saggio di Hannah Arendt ‘La banalità del male’ ha, nel tempo, esteso l’interrogativo della filosofa “si può fare del male senza essere malvagi?” a considerazioni che esulano dalla tragedia del genocidio (1) ma pongono l’accento su cosa sia il male e sulla correlazione fra l’atto compiuto e l’individuo che lo compie.
Questa frase ricorre spesso nelle mie riflessioni sulla visione antropocentrica e specista della cultura imperante ma assume i toni di una deflagrazione quando mi trovo ad affrontare dei percorsi riabilitativi per cani con un passato di maltrattamento od abusi. Accade di frequente che al male (evidente, conclamato ed innegabile) subito da questi individui ad opera di umani ‘cattivi’, segua altro male agito su di loro da sedicenti esperti o animalisti mossi dalla compassione.
Il male perpetrato da quella categoria di umani ha origini non dalla malvagità della persona ma dall’ignoranza, dalla presunzione, dall’egoismo e dalla visione antropocentrica di essere i salvatori dei più deboli. Ma sono davvero così deboli come si pensa? E se invece fossero talmente forti, non solo per sopravvivere, ma per conservare persino l’idea di un riscatto? Io credo che la forza di un individuo si possa esprimere in molteplici modalità, molte delle quali incomprese dai più.
Un caso che seguo attualmente ha come protagonista un cane che ha trascorso i primi 2,5 anni della sua vita con un umano malvagio che lo ha fatto crescere con un’importante deprivazione sociale oltre ad infliggere certe violenze psicologiche e presumili violenze fisiche. Quando è stato adottato dall’attuale famiglia mostrava un profondo disagio che lui manifestava con un comportamento autolesionistico, tuttora presente. La nuova famiglia ha chiesto aiuto e i sedicenti esperti intervenuti allora hanno affrontato il suo malessere psicologico (posto che ne abbiano compreso lo spessore e la profondità, cosa che dubito) senza tener conto della sua storia di vita, delle sue necessità, delle sue difficoltà. Il ‘protocollo’ standard per l’educazione di un cane (retaggio di una mentalità colonialista) prevede che tutti i cani vivano in casa, magari sul divano, amino essere toccati da chiunque, che qualsiasi problema si risolva con giochini di attivazione mentale e premietti in cibo e – ahimè – che si fidino degli umani a prescindere. Applicare queste presunzioni ad un individuo cresciuto in un box isolato in campagna, che considera il cibo l’unica risorsa a lui concessa, che ha conosciuto come modello di relazione interspecifico solo un uomo violento, è – quanto meno – un’ingenuità. Così all’esperienza negativa iniziale se ne sono aggiunte di nuove, assolutamente inutili e gratuite, causate da umani incompetenti e insensibili.
Persone normali compiono atti banali di male.
Questo Cane invece ci dimostra la sua straordinaria forza, l’eccezionalità della sua metabolizzazione dei torti subiti e la travolgente abilità di creare da solo competenze ed abilità. Quando rispettato si apre alla conoscenza di altri umani, se compreso accetta proposte, se considerato individuo interagisce con dolcezza e desiderio di godere di vari e diversi contesti sociali.
Ogni nostro incontro è per me fonte di stupore ed ammirazione: nonostante tutti i suoi disagi è un individuo estremamente equilibrato, mediamente sereno ed aperto al dialogo. Per questo sono strenuamente convinta che gli animali non umani non siano mai banali.

(1) Il saggio contiene le riflessioni della Arendt sul gerarca nazista Adolf Eichmann durante il processo tenutosi a Gerusalemme nel 1961

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